La polemica e lo stallo della CEI

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CEI DPCM fase 2

È necessario risalire alla discussione sui DICO (diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi) del 2007-2008 per trovare una posizione cosi antigovernativa come quella registrata nella nota della Segreteria della CEI del 26 aprile: «I vescovi non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto».

Ma mentre 13 anni fa il riferimento era ai «principi non negoziabili», cioè alla pretesa della Chiesa di condizionare le leggi e il legislatore, oggi il riferimento è alla Costituzione e alla libertà religiosa. Con un evidente richiamo anche alla forma concordataria della presenza della Chiesa cattolica nel Paese.

La Conferenza episcopale ha mostrato resistenze fin dall’inizio alle disposizioni relative alla chiusura per la pandemia. L’8 marzo diceva: «L’accoglienza del decreto è mediata unicamente dalla volontà di fare, anche in questo frangente, la propria parte per contribuire alla tutela della salute pubblica». E nel comunicato del 16 aprile «il Consiglio permanente ha condiviso l’impegno della segreteria generale, nell’interlocuzione con le istituzioni governative, per definire un percorso meno condizionato all’accesso e alle celebrazioni liturgiche per i fedeli, in vista anche della nuova fase che si aprirà dopo il 3 maggio».

Nel comunicato del 26 aprile si ricordano le assicurazioni governative per un esercizio più ampio del culto e l’urgenza di riprendere l’azione pastorale. La mancata apertura registrata nel decreto del Consiglio dei ministri mostra, a parere dei vescovi una non chiara distinzione di responsabilità fra Presidenza del consiglio e Comitato tecnico da un lato e la Chiesa dall’altro, che, nel rispetto delle misure disposte, deve essere riconosciuta nella «pienezza della propria autonomia».

La mancata traduzione

Protesta legittima, ma che non può ignorare una storia recente di sostanziale afasia. Il presidenzialismo ruiniano aveva accentrato nelle sue mani ogni forma di rapporto ecclesiale con la politica e la cultura del Paese. Con Francesco la CEI avrebbe avuto l’opportunità di invertire questa tendenza, che pensava il rapporto con le istituzioni  politiche del Paese nella logica dello scambio e della curatela dei propri interessi corporativi. Lo si è fatto solo nella forma della non-opposizione all’indirizzo del papa, ma senza una reale «traduzione in italiano» di Francesco.

Non sono certo mancati i momenti positivi e creativi come il Convegno di Firenze nel 2015 o la resistenza agli indirizzi populisti, sovranisti, anti-europei e filo-razzisti del governo precedente. Nulla di paragonabile al filo-berlusconismo degli anni Novanta. Così l’iniziativa del Convegno dei vescovi a Bari (febbraio 2020) poteva diventare una efficace assunzione di responsabilità non solo nei confronti delle Chiese a Sud del Mediterraneo, ma anche una proposta per allargare la miope politica italiana sia verso l’Europa sia verso l’Africa e il Medio Oriente. Anche la recente difesa delle scuole paritarie ha un respiro più ampio dei semplici interessi di parte.

Ma non si può ignorare l’impressione di un’apatia che ha lasciato senza significativi frutti il discorso di Francesco a Firenze, che ha archiviato in fretta la proposta di un sinodo per la Chiesa italiana, che non si è svegliata davanti a una politica senza respiro e scarsamente attenta alle istituzioni. Va registrato il silenzio della CEI davanti alla pandemia, rimasta priva di un’interpretazione autorevole e condivisa. Anche se non sono mancate voci efficaci di singoli prelati.

Pur scontando tutti i limiti legati alla sorprendente e subitanea pandemia che vale per la Chiesa come per tutte le istituzioni ci sono limiti di lunga durata. Fra questi una drastica contrazione di personale, di competenze e rilievo degli uffici CEI, comprensibile come reazione al precedente centralismo, ma che ha sguarnito la capacità di reazione dell’organismo.

Il protagonismo solitario dell’ex-segretario, mons. Nunzio Galantino, ha il corrispettivo nella difesa delle scuole paritarie affidata al sottosegretario mons. Ivan Maffeis. L’assenza di una interlocuzione con le forze politiche e con il governo che sia sistematica e coltivata, ben oltre i ristretti confini degli interessi immediati, si è fatta sentire in un momento critico come l’attuale. L’idea di affidare alle periferie quella spinta che non si voleva più unicamente dal centro si è rivelata dispersiva e sostanzialmente non interpretata.

Senza sogni e visioni

«Il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, col realismo che solo il Vangelo può offrirci» (Francesco) è ciò di cui la CEI non è stata all’altezza. Il rischio di procedere in ordine sparso, non solo tra i vescovi ma anche tra i preti di una stessa diocesi, sarebbe il passo ulteriore verso la completa irrilevanza pubblica del cattolicesimo istituito in Italia.

E oggi la cura delle anime passa unicamente attraverso la capacità di contribuire attivamente alla configurazione di un nuovo ordinamento costituzionale della casa comune in cui tutti abitiamo. Voci di possibili correzioni del decreto sono già in circolazione, ma la parallela e convergente fragilità della sponda politica ed ecclesiale, contribuisce non a costruire e rafforzare il consenso comune all’impresa dei prossimi mesi e anni, ma ad alimentare la fragilità delle istituzioni pubbliche e l’afasia di quelle ecclesiali.

L’inutile aggressività richiesta dai tradizionalisti di casa nostra non abita il pensiero della CEI, che invece dovrebbe interpretare i germi di nuova pastorale e di nuove aperture che la pratica delle Chiese locali ha saputo mettere in campo in questi difficili giorni.

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8 Commenti

  1. Gabriele 29 aprile 2020
  2. Adelmo Li Cauzi 28 aprile 2020
  3. nadia mazzanti 28 aprile 2020
    • Enzo 29 aprile 2020
  4. Antonio Cecconi 28 aprile 2020
  5. Marco Modesto 27 aprile 2020
  6. Angela 27 aprile 2020
  7. Massimo Fato 27 aprile 2020

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