L’esegeta milanese propone alcune riflessioni biblico-sapienziali sulla modalità con cui Dio si rivela attraverso i suoi segni nella Chiesa, nella Bibbia e nel mondo di oggi.
Egli articola il suo lavoro in quattro parti, di diseguale lunghezza.
Dio si rivela, ma occorre saper discernere i segni dei tempi, dovere permanente della Chiesa. Dio ha parlato molte volte e in diversi modi per mezzo dei profeti, afferma la Lettera agli Ebrei, e quanto fu scritto, lo fu per nostro ammaestramento (cf. Rm 15,4). Ciò che Dio rivela è la sua volontà salvifica. Credendo ai segni che hanno trovato in Gesù il loro compimento, il credente può saziare il suo profondo desiderio di vita e di felicità.
I profeti e i segni di Dio
Nella prima parte del suo libro (pp. 25-38), Manzi propone tre riflessioni sul rapporto fra i profeti e i segni di Dio.
Il profeta è una persona di fede (cf. Is 50,4-5), dedita alla parola e capace di discernimento. Il profeta fonda la sua intera esistenza sul rapporto con il Signore, parla in nome di Dio ed è capace di discernere i suoi segni storico-salvifici. Il Signore si rivela con segni multiformi – verbali e fattuali –. È necessario, allora, interpretare la storia, perché è in essa che Dio desidera entrare in rapporto con gli uomini per condurli alla salvezza.
Grazie a una particolare ispirazione divina, il profeta è messo in grado di interpretare i segni con cui Dio si rivela nelle concrete situazioni della storia. L’esperienza di Elia sul monte Oreb manifesta che Dio si rivela mediante «una voce di sottile silenzio» (cf. 1Re 19,9-13).
Per comprendere i segni, il profeta deve essere in profonda sintonia con Dio, avere le labbra purificate dal Signore e una lingua modellata da lui che diventa capace di testimoniare agli altri i desideri che Dio nutre a loro riguardo.
Il profeta Isaia e i segni di Dio
Nella seconda parte del suo lavoro (pp. 39-60), Manzi si sofferma sul profeta Isaia e sul suo rapporto con i segni di Dio.
Lo studioso si sofferma soprattutto sul «libro dell’Emmanuele» (Is 7–12), che ruota attorno al “segno” centrale costituito dalla figura dell’Emmanuele. Il contesto dei segni di Dio presenta un’ineludibilità della scelta. Occorre avere una fede incrollabile, propria di chi resta saldo nel Signore.
Un primo segno che Dio offre ad Acaz è il fatto che «un resto ritornerà».
Il secondo segno è l’Emmanuele, il “Dio-è-con-noi”. Non bisogna affidarsi ad alleanze militari, ma ricordarsi della promessa fatta da Dio a Davide e restarvi fedeli con fiducia. Manzi spiega la dieta del bambino concepito dalla vergine (cf. 7,15). «Panna e miele» non annuncia necessariamente prosperità futura, ma potrebbe indicare anche un tempo di carestia. La pagina successiva di Isaia predice infatti l’invasione assira.
Il “profeta” Gesù e i segni di Dio
La parte terza del volume di Manzi si sofferma sul “profeta” Gesù e i segni di Dio (pp. 61-124).
Gesù viene a coincidere con ciò a cui i segni di Dio rimandano. Gesù non è solo inviato a profetizzare l’avvento del Regno dell’amore incondizionato di Dio, ma già lo rende presente nella sua esistenza terrena. In questo senso, Gesù adempie il profetismo dell’Antico Testamento, secondo la triplice dimensione della continuità, della discontinuità e della progressione.
In Lc 4,16-30 Gesù rivela a Nazaret di essere un profeta su cui riposa lo Spirito del Signore, per annunciare il regno di liberazione e di grazia di Dio per i poveri e gli oppressi (pp. 61-76). Nella sua vita, Gesù esulta nello Spirito Santo e afferma che in lui si può vedere ciò a cui aspirarono molti re e profeti dell’AT. Dopo la pasqua, i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo (cf. At 2,1-4) e proclamano che Gesù, il Nazareno, fu profeta potente in opere e in parole (cf. Lc 24,19).
La gente pensa che Gesù sia un Elia redivivo, ma egli afferma che se scaccia i demoni con il dito di Dio, è giunto nel mondo il regno di Dio.
Dall’AT proveniva una certa luce, ma – secondo Manzi – è molto probabile che anche a Gesù i segni dei tempi apparissero connotati da un certo grado di ambiguità o di opacità. Gesù si applica a un discernimento della volontà di Dio univocamente buono, che vuole istaurare il regno dell’amore, l’anno di grazia del Signore. Gesù vede nella sua vita un destino di sofferenza e di morte, ma ha la certezza che il Padre lo assisterà con la risurrezione.
Gesù profetizza il regno di Dio, ma realizza pure questa profezia (pp. 77-100). «Oggi si è compiuta questa Scrittura», afferma nella sinagoga di Nazaret dopo aver letto un passo di Is 61 sull’anno di grazia incombente. Nel momento del battesimo e della trasfigurazione il Padre conferma a Gesù tutto il proprio compiacimento, dichiarandolo suo Figlio, l’amato. Solo il Figlio conosce il Padre ed è lui l’inviato dal padrone della vigna che sarà ucciso dai vignaiuoli.
Nella sua predicazione e nelle sue parabole Gesù rivela e attua il Regno, portando a compimento le profezie dell’AT. Egli però non fa scendere il fuoco dal cielo, ma proclama l’anno di grazia del Signore. Certo egli annuncia anche un giudizio finale decisivo, a cui prepararsi accogliendo la sua parola, obbedendo ai comandi del Signore che vuole la salvezza di tutti, essendo benevolo anche verso gli ingrati e i malvagi. A Giovanni Battista rivela che i suoi segni sono quelli del vero Messia atteso.
Manzi annota come anche il Padre adempia la profezia di Gesù sul regno di Dio (pp. 101-124).
Gesù vuole rivelare il volto del Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Gesù rivela i tratti paterni del Padre anche di fronte alla morte. La morte e la risurrezione saranno il «segno di Giona», a riguardo del quale dovranno prendere posizione persino quelli che non credono in lui.
Il discernimento spirituale compiuto da Gesù mediante il costante confronto tra la propria esperienza quotidiana e le figure dei mediatori salvifici lo hanno portato a prevedere che sarebbe stato ucciso in modo ignominioso secondo quanto profetizzava l’oracolo di Is 53,12, da lui citato nell’ultima cena (cf. Lc 22,37). Gesù individua nell’oracolo di Is 52,13–53,12 circa la morte ignobile ma vicaria del servo del Signore l’oracolo profetico capace di lasciare intuire a lui stesso e ai suoi discepoli l’intento redentore della sua fine terrena, all’interno del piano salvifico di Dio.
Manzi riflette a lungo sull’oracolo isaiano. Sulla croce Gesù prega il Padre di perdonare i suoi uccisori, perché non sanno quello che fanno. Gesù è giunto alla consapevolezza di poter dare un valore salvifico alla propria morte. Ha preferito non cercare di salvare miracolosamente sé stesso, per non alimentare quella raffigurazione del Signore come giudice onnipotente e implacabilmente severo, che, sia pure con un intento pedagogico, i profeti anticotestamentari avevano lasciato immaginare più volte con vari oracoli di castigo.
Gesù è animato dal desiderio salvifico universale del Padre, che lo ha spinto a non scendere miracolosamente dalla croce. Per questo «la sua morte è diventata il segno profetico definitivo capace di manifestare, nella maniera più nitida possibile, il volto incondizionatamente buono del Dio-Abbà. Difatti, in quella situazione di estrema chiusura degli uomini all’amore divino, non solo Dio Padre non si è imposto loro con la “potenza del suo braccio”, liberando suo Figlio e mettendo in fuga i crocifissori […]. Non solo non ha violentato la libertà degli uomini, imponendo loro la venuta del suo regno. Ma l’ha rispettata a tal punto, da voler rimanere apparentemente impotente di fronte all’omicidio del Figlio suo» (pp. 112-113).
Gesù si affida totalmente al volto univocamente paterno di Dio Padre chiedendo perdono per i suoi crocifissori e pregando nell’Orto degli Ulivi che non si compisse la propria volontà, ma quella del Padre.
Gesù stesso si è reso conto che, per continuare a profetizzare e a favorire la venuta del regno di Dio nel mondo, non avrebbe potuto sottrarsi prodigiosamente alla croce. «Altrimenti – annota Manzi –, avrebbe contraddetto la sua stessa profezia, secondo la quale la realizzazione del regno di Dio implicava necessariamente la libera risposta degli uomini all’offerta salvifica incondizionata di Dio Padre. Se Gesù si fosse salvato con un miracolo, evitando di morire in croce, avrebbe suscitato un sospetto di inautenticità su tutti i segni profetici da lui offerti in precedenza. Per questa ragione, Gesù è morto in croce, senza ritrattare in alcun modo la profezia circa la sua mediazione definitiva del regno di Dio. A questa decisione Gesù è giunto grazie a un prolungato discernimento sulla volontà divina fondato sui segni storici di Dio, interpretati alla luce dei testi isaiani del servo sofferente del Signore. Che Gesù abbia determinato il senso salvifico della sua esistenza a partire soprattutto dai canti del servo sofferente del Signore e, in specie, dal quarto canto (Is 52,13-53,12) è sostenuto da numerosi biblisti» (p. 118).
Il discernimento di Gesù – prosegue l’autore – «l’ha portato a riconoscere, già nella preghiera angosciata nel Getsemani, che, nonostante la multiforme resistenza peccatrice degli uomini, Dio Padre – e soltanto lui –, avrebbe fatto concorrere tutto al compimento della salvezza (cf. Rm 8,28), così da far proseguire la venuta del regno dei cieli, che Gesù aveva, fino a quel momento, profetizzato e incipientemente attuato nel pieno rispetto della libertà degli uomini» (p. 119).
Dio Padre ha salvaguardato a tal punto la libertà degli uomini, compresa quella degli avversari iniqui del suo Figlio, da consentire che la loro violenza si abbattesse su di lui e lo sopprimesse. È chiaro che «l’intenzione di Gesù di offrire segni che rivelassero il volto incondizionatamente buono del Dio-Abbà corrispondeva al desiderio salvifico universale di Dio stesso. Nel suo discernimento spirituale – prosegue lo studioso –, Gesù aveva interpretato in modo giusto la volontà del Padre. Per questa consonanza di intenti, il Dio vivente, che, da che mondo è mondo, desidera rendere partecipi gli uomini della sua stessa vita, ha risuscitato Gesù dai morti (cf. Lc 24). In questo modo, ha portato a compimento eccedente il nucleo incandescente di speranza, sprigionato da varie profezie messianiche dell’Antico Testamento (Is 52,13-53,12; Dn 7,13-14 ecc.), una volta che Gesù – seguito poi dalla Chiesa apostolica – le aveva interpretate in riferimento alla sua mediazione definitiva del regno dei cieli attraverso la sua morte e risurrezione» (p. 120).
La morte e la risurrezione di Cristo costituiscono – secondo Manzi – il «segno di Giona», da lui stesso annunciato (Lc 11,16-30). «Questo evento, assolutamente eccedente ad ogni profezia anticotestamentaria, è, ad un tempo, il “segno di contraddizione” (2,34) e il segno di rivelazione più nitido del vero volto del Dio-agápē. È il segno profetico definitivo per credere alla promessa divina della vita eterna e per comprendere, alla luce delle parole e dei segni trasmessi dalla sacra Scrittura (cf. 24,25), chi è il Dio di Gesù Cristo. Di fronte al mistero pasquale di Cristo, ogni essere umano è invitato a fare discernimento, per scoprire il desiderio di salvezza che Dio ha sull’intera umanità» (p. 121).
Il discernimento dei segni di Dio
Manzi dedica la parte quarta del suo lavoro al discernimento dei segni di Dio (pp. 125-164).
L’autore ricorda che l’analisi del contesto storico-politico della pericope di Is 7,17 era finalizzata a lasciare emergere con chiarezza che, effettivamente, il Signore si manifesta nella storia (pp. 125-128). Egli è l’attore principale della storia della salvezza, nel pieno rispetto della libertà degli uomini.
La sottolineatura del protagonismo salvifico del Signore nella storia porta gli antichi autori biblici ad attribuire a lui ogni avvenimento, senza precisare – come farà la rivelazione biblica successiva – il ruolo giocato liberamente dagli uomini, e, in specie, dai governanti dell’epoca.
D’altra parte, il Dio della Bibbia non è una divinità immanente, simile agli dèi delle religioni naturistiche e cosmologiche dell’Antico Vicino Oriente. Gli interventi di Dio nella storia non sono inquadrabili negli schemi concettuali umani. Nessun essere umano può con le sue sole forze intellettuali discernere il piano storico-salvifico del Signore (cf. Is 37,26).
La difficoltà del discernimento della volontà di Dio è dovuta, inoltre, al fatto che la sua rivelazione nella sacra Scrittura non è primariamente né una dottrina, né una filosofia di vita né, tantomeno, un’ideologia. La rivelazione biblica offre anche delle verità dottrinali, ma esse affiorano sempre, in ultima analisi, dall’agire di Dio nella storia degli uomini. Dio si è rivelato come il Signore della storia, che, per amore delle creature umane, sa «farsi vivo» nel tempo da esse abitato. La condiscendenza di Dio non elimina, comunque, la distanza incolmabile delle sue vie dalle nostre.
Manzi riflette in un secondo momento su i segni di rivelazione di Cristo nella Pasqua (pp. 129-134). Secondo i vangeli, Gesù risorto incontra gli apostoli e li conferma nella fede, nonostante le loro difficoltà a riconoscerlo. Egli promette di essere con loro tutti i giorni, fino alla fine del mondo. I cristiani, come i profeti e anche come Gesù stesso, devono compiere il delicato compito del discernimento spirituale, dato che la logica dei segni di Dio permane anche dopo la morte e risurrezione di Cristo, lungo tutta la storia della Chiesa. Nell’Ultima Cena Gesù promette che lo Spirito Santo verrà e insegnerà ogni cosa.
Lo Spirito del Crocifisso risorto suscita l’intento salvifico dei segni: egli intende esplicitare, in modo comprensibile ai cristiani delle varie epoche, il senso salvifico della rivelazione definitiva portata a termine dal Figlio di Dio, così da favorirne la conformazione a lui (cf. Rm 8,29; Fil 3,10-11.20-21). Lo Spirito Santo ricorderà ogni cosa di Gesù e guiderà alla verità, attingendo da ciò che Gesù ha detto e fatto.
Manzi si domanda: se Dio-agápē ci vuole davvero bene, non potrebbe farci capire, senza tanti misteri, che cosa desidera da noi per la nostra salvezza? Perché i suoi segni di rivelazione appaiono non di rado opachi, ambigui, se non addirittura oscuri?
In un secondo paragrafo Manzi medita sui segni di rivelazione di Dio e l’analogia dell’amore sponsale (pp. 135-144).
Egli ricorda dapprima che i pensieri di Dio non sono i pensieri degli uomini. Esiste la libertà di Dio e quella degli uomini. Gesù ha promesso però che egli attirerà tutti a sé, e quindi si deve concludere che l’intento dei segni di Dio è indicare la via del bene. Dio concede agli uomini dei segni esclusivamente allo scopo di attirarli a sé.
Manzi ricorda l’invito biblico a meditare sugli anni lontani. Facendo memoria nella fede del passato proprio e altrui, spesso si riesce a riconoscere determinati eventi come segni, attraverso i quali Dio ha esercitato efficacemente la sua attrazione salvifica.
L’autore menziona la presa di coscienza da parte di Giuseppe, figlio di Giacobbe (Gen 50,20). Per discernere il desiderio salvifico di Dio Padre su di lui, Gesù stesso ha potuto fare memoria dei segni di riconoscimento filiale da lui concessigli durante il battesimo e durante la trasfigurazione.
Come fare a cogliere il significato salvifico per noi dei segni di Dio? «Possiamo riuscirvi – risponde l’autore – a condizione che, sperando nel compimento della promessa di Dio di attrarci alla comunione definitiva con lui, individuiamo in anticipo in un determinato segno storico un’indicazione orientata a quella stessa comunione» (p. 141).
Il credente deve chiedersi quale decisione deve prendere in quel momento per essere un vero discepolo di Gesù.
Manzi accenna anche al segno di Dio che coincide con una «percezione visiva interiore» (visivo immaginativa) o visioni di altri tipi. «Le facoltà conoscitive della persona umana filtrano il segno di Dio attraverso una griglia molto fitta di rappresentazioni fisiche, psichiche, intellettuali e complessivamente socio-culturali differenti» (p. 143). Egli fa riferimento alle visioni riguardanti la Vergine Maria.
Manzi si avvia alla conclusione del suo lavoro riflettendo in un penultimo paragrafo sul rapporto tra la grazia divina e la libertà umana (pp. 135-144).
“Dov’è carità e amore, lì c’è Dio”, ricorda. «Per comprendere quale senso salvifico abbia per la propria vita uno specifico segno di Dio, la persona che lo percepisce deve predisporsi ad accoglierlo con un atteggiamento credente, che non cessa di fare memoria dei segni di benevolenza ricevuti da Dio in passato e che, d’altro canto, seguita a sperare, nonostante tutto, nella realizzazione futura dei beni salvifici, da lui promessi» (p. 148).
La fede – scrive Manzi –, «vitalizzata da una memoria riconoscente e da una speranza realista, consente alla persona di superare le tentazioni dell’ateismo pratico, del fatalismo religioso e di qualsiasi altra forma di incredulità o di immaturità della fede, che paradossalmente possono essere suscitate o alimentate dagli stessi segni di Dio. Difatti, essendo doni gratuiti dell’eccedente benevolenza divina, i segni del Signore possono anche apparire all’essere umano come riconducibili alla pura casualità, alla cieca fatalità, oppure all’arbitrario capriccio di un Dio dal volto ambiguo. Solo uno sguardo credente è in grado di superare la tentazione insita nel carattere tendenzialmente opaco con cui i segni di Dio non di rado appaiono alla coscienza umana, purificandoli da questa loro opacità e spingendo la persona a riconoscere in essi con riconoscenza un’indicazione salvifica della provvidenza divina» (p. 149).
Gesù ha insegnato a consegnarsi con fiducia alla provvidenza divina (cf. Lc 12,22-31; Mt 6,25-33). Paolo è consapevole di non agire con le sole sue forze, ma che la grazia di Dio è con lui (cf. 1Cor 15,10).
«Chi crede, “vede”» è il titolo dell’ultimo paragrafo del libro (pp. 152-164).
Per operare un discernimento spirituale permanente a riguardo dei segni del Dio di Gesù Cristo, purificandoli dall’opacità in cui appaiono in «questo mondo malvagio» (cf. Gal 1,4) alla coscienza umana, occorre la fede. La fede è la partecipazione totalizzante alla singolare – ma non esclusiva – relazione filiale di Gesù Cristo con Dio Padre.
Le fede è un mezzo per conoscere le realtà che non si vedono, afferma la Lettera agli Ebrei.
Sulla scia di Maria, ogni battezzato è chiamato ad accogliere Cristo nella propria vita, a coglierne con stupore il mistero salvifico e a lasciarsi conformare a lui dallo Spirito Santo. «Se non crederete, non resterete saldi», aveva ricordato il profeta Isaia al re Acaz. Solo chi crede si accorge dei segni offerti da Dio nelle vicende concrete della vita.
Da parte sua l’apostolo Paolo ricorda che l’uomo mosso dallo Spirito giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno (cf. 1Cor 2,14-15; cf. 1Gv 2,20-21). «In quanto finalizzato al discernimento spirituale dei segni storici di Dio – scrive Manzi –, il dono carismatico della profezia, in ambito biblico come nel tempo della Chiesa, non può che inquadrarsi in questo rapporto strutturale tra la manifestazione divina e la sua libera accoglienza da parte del credente» (p. 159).
Occorre che il cristiano discerna la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cf. Rm 12,2). Il criterio fondamentale per farlo è la vicenda concreta e singolare di Gesù Cristo. In lui lo Spirito Santo rende possibile una memoria creativa all’interno della comunità cristiana, suscitando in essa variegate figure capaci di aiutare gli altri a fare discernimento (confessore, direttore spirituale ecc.). Non si può ripetere materialmente la vita di Gesù. «Cristo ama a tal punto ogni suo discepolo da compiacersi quando constata che questi sta facendo Cristo a suo modo» (p. 161).
L’attività salvifica di Cristo è continuata nella storia da tutte le membra della Chiesa, viventi in comunione.
Lo Spirito Santo ha ispirato lungo la storia della Chiesa l’enucleazione di vari criteri di discernimento da mettere in campo, con intelligenza credente, nella confessione, nella direzione spirituale, nell’esame di coscienza personale o comunitario e, più in genere, nell’agire di tutti i giorni.
Nel loro complesso, tali criteri aiutano il credente a trovare i modi concreti per vivere e amare “come” Cristo nel proprio contesto socio-culturale e religioso e nella propria quotidianità. Manzi accenna alla «consolazione» e alla «desolazione» di cui parla Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi spirituali.
Come utile sintesi del suo lavoro, riportiamo il paragrafo conclusivo del libro di Manzi.
«È utile ribadire, in sede conclusiva, la tesi principale a cui è pervenuta la presente indagine teologico-biblica: davanti alla mancanza di evidenza “matematica” con cui i segni di Dio appaiono alla coscienza umana, a motivo della molteplicità delle scelte possibili in “questo mondo malvagio” (Gal 1,4), un autentico discernimento spirituale è in grado di consentire al cristiano di pervenire e una certezza morale, fondata in ultima istanza sulla fede nella promessa divina della salvezza, definitivamente mediata da Gesù Cristo. È necessaria un’infinita creatività per coniugare, all’interno dei concreti cammini personali ed ecclesiali, la grazia divina e la libertà umana, la Provvidenza e l’autonomia della storia, la rivelazione di Dio e la fede dell’uomo. […] Si deve ribadire il largo margine di mistero che circonda il soffio dello Spirito di Dio nella storia dei credenti e specialmente la sua capacità di attrarli con discrezione efficace al Crocifisso risorto, rispettandone e valorizzandone sempre la libertà. Eppure, Gesù Cristo, i profeti della Bibbia e anche i profeti dei nostri giorni ci testimoniano che Dio ha questa creatività senza limiti!» (pp. 163-164).
Le note non sono riportate a piè di pagina, ma raccolte in fondo al volume (pp. 165-176). Chiudono l’opera i consigli bibliografici articolati in modo ragionato (pp. 177-186).
Il libro di meditazione di Franco Manzi è accessibile a tutti e aiuta a riflettere sul piano salvifico complessivo di Dio che si attua mediante le parole e le azioni di credenti che, con fede intelligente e creativa e un profondo discernimento, si lasciano attrarre nello Spirito Santo a Dio e al suo Figlio Gesù, nella complessità della storia in cammino verso il pieno compimento del regno di Dio.
- FRANCO MANZI, Si misero sulle sue tracce. Cristo e i profeti di ieri e di oggi (Le àncore), Àncora, Milano 2025, pp. 192, € 17,00, ISBN 9788851429485.