La mostra «Munch. Il grido interiore», dall’11 febbraio al 2 giugno 2025 a Palazzo Bonaparte di Roma, rappresenta un’occasione unica per immergersi nell’universo simbolico e tormentato del maestro norvegese. Con oltre cento opere in prestito senza precedenti dal Munch Museum di Oslo, l’esposizione ripercorre il cammino artistico di Munch, evidenziando il suo rapporto con la percezione, la vita, la morte, l’amore e il mistero dell’esistenza. Tra i capolavori esposti spiccano alcune opere iconiche, come Malinconia, Notte stellata, La morte di Marat, Ragazze sul ponte, Danza sulla spiaggia e, naturalmente, una delle versioni de L’urlo.
Edvard Munch è da sempre considerato uno dei più grandi interpreti dell’angoscia esistenziale e del dolore umano, capace di trasformare le sofferenze interiori in un linguaggio visivo che trascende il semplice atto della pittura per abbracciare questioni profonde e universali. La sua opera, intrisa di tensione e simbolismo, offre una lettura teologica in cui il dolore si fa veicolo per comprendere il peccato, la caduta e la possibilità – seppur nascosta – della redenzione. Non si tratta di un’espressione religiosa in senso stretto, ma di un’intensa meditazione sull’essenza stessa dell’essere umano, attraverso pennellate impetuose e contrasti tra luce e ombra.
Nel percorso artistico di Munch il tema della «caduta» dell’uomo emerge con forza, come se le sue tele fossero specchi dell’anima che rivelano la fragilità della condizione umana. Opere come La bambina malata, Morte nella stanza della malata e Il padre in preghiera raccontano il dolore e il lutto, trasformando la sofferenza in un «sacramento» che, pur essendo fonte di disperazione, apre uno spiraglio verso il trascendente. In questi dipinti il lutto diventa quasi una via crucis laica, una continua ricerca di redenzione in un mondo segnato dalla caducità della vita. La preghiera, in queste rappresentazioni, non appare una consolazione facile, bensì l’ultimo rifugio di un’anima tormentata, in bilico tra il desiderio di ritrovare il divino e l’inevitabile presenza dell’oscurità interiore.
Forse l’immagine più iconica e dibattuta di Munch è quella de L’urlo, in cui la figura, pervasa da un terrore indefinibile, emette un grido che sembra attraversare la natura stessa. Questo capolavoro incarna il vuoto metafisico e la crisi spirituale di una modernità disincantata, in cui il divino appare oscurato dal caos e dalla disperazione. Le forme distorte e l’uso audace del colore non sono meri espedienti stilistici, ma simboli potenti della condizione umana, in cui il dolore diventa il prezzo da pagare per una conoscenza più profonda dell’esistenza. In questo grido disperato risuona l’eco di una «notte oscura», in cui la speranza redentrice si fa rara, ma non del tutto assente.
Parallelamente, l’atto creativo per Munch assume una valenza quasi salvifica. Egli stesso paragonava la pittura a uno stato di malattia, un’intossicazione dalla quale non poteva sottrarsi. Questo processo creativo diventa così un rituale di purificazione, un tentativo di trasformare il tormento interiore in bellezza e, forse, in una via verso la redenzione. Nei dipinti come Le ragazze sul ponte e Notte stellata si intravede un attimo di quiete, un istante in cui la natura appare come portatrice di una luce sottile, capace di insinuare un barlume di trascendenza in un contesto altrimenti dominato dalla disperazione.
La tensione tra sacro e profano, tra fede e angoscia, costituisce un altro elemento cardine dell’opera di Munch. La sua sensibilità, profondamente influenzata dall’ambiente luterano in cui crebbe, lo porta a esplorare l’intricato rapporto fra l’uomo e Dio. Temi quali la solitudine e l’alienazione – evidenti in opere come Melanconia e nella serie Fregio della vita – possono essere interpretati come il riflesso di una condizione post-caduta, in cui la comunione autentica con il divino appare sempre più difficile da instaurare. Questa condizione di frattura, quasi come una ferita originaria, spinge l’uomo a cercare disperatamente un significato che sembra sempre sfuggire, un tentativo incessante di riconnettersi a quella scintilla di eternità che permetta di dare un senso al dolore e alla solitudine.
Eppure, in alcuni momenti, l’arte di Munch si fa portatrice di una luce ambigua, in cui il sacrificio e il mistero si fondono in un insieme affascinante e contraddittorio. Opere come Golgotha esprimono in chiave fortemente religiosa quella meditazione sul sacrificio e sulla solitudine che caratterizza l’esperienza umana. Pur definendosi uno «scettico», Munch non rinnega la dimensione religiosa della sua estetica, scegliendo di rappresentarsi in chiave cristiforme, come un Cristo crocifisso circondato da figure beffarde, a simboleggiare la solitudine e l’incomprensione che spesso accompagnano il dolore umano. Allo stesso modo, la figura della Madonna, pur nella sua veste sensuale e profana, richiama i simboli della Vergine Maria, suggerendo che il sacro possa celarsi anche dietro le maschere della quotidianità.
Un ulteriore aspetto fondamentale dell’universo di Munch è il ruolo ambivalente della natura. Nei suoi paesaggi, essa non si limita a fare da sfondo, ma diventa protagonista di un dramma esistenziale, capace di manifestare il divino in modo velato e ambiguo. I mutamenti dei paesaggi, che riflettono lo stato d’animo dei personaggi, offrono un’altra chiave interpretativa per comprendere come, in un mondo sempre più secolarizzato, l’uomo continui a cercare quella scintilla di eternità che gli permetta di dare un senso al proprio dolore.
Curata da Patricia G. Berman e dal noto storico dell’arte Costantino D’Orazio, la mostra di Palazzo Bonaparte si articola in sette capitoli che tracciano l’evoluzione creativa di Munch dalla giovinezza ai lavori maturi, mettendo in luce come l’artista abbia tradotto la percezione sensoriale in un linguaggio che anticipa l’Espressionismo. Scriveva l’artista norvegese: «Non dipingo ciò che vedo – ma ciò che ho visto», esprimendo l’idea che l’arte non si limiti a riprodurre una realtà oggettiva, bensì la trasformi attraverso le esperienze, i ricordi e le emozioni. È questa capacità di comunicare il «vuoto lacerante» della perdita e la spossatezza della malinconia che lo colloca al vertice dell’arte europea della fine del XIX secolo, come sottolineato da Tone Hansen del Munch Museum.
Un aspetto particolarmente affascinante dell’esposizione organizzata da Arthemisia è il focus sul legame che Munch intratteneva con l’Italia, paese che lo influenzò profondamente. Il primo viaggio in Italia, nel 1899 insieme a Tulla Larsen, rappresentò un passaggio fondamentale nella vita e nell’arte del pittore: nonostante le difficoltà – da lui descritte come «malattia, alcol, disastri» durante il soggiorno a Firenze – il Rinascimento e, in particolare, la Cappella Sistina, riuscirono a conquistare il suo animo. Ripetuti soggiorni in Italia, per studiare gli affreschi di Michelangelo e Raffaello e per visitare il cimitero acattolico di Roma, lasciarono un’impronta indelebile che si riflette nei paesaggi e negli scorci delle sue tele, dal cimitero romano al celebre Ponte di Rialto a Venezia.
Questa ricerca incessante di significato dell’opera di Edvard Munch, invita il pubblico a non ignorare il dolore, ma a riconoscerlo come parte integrante dell’esperienza umana. L’arte diventa così una confessione visiva, una narrazione simbolica in cui si intrecciano il tormento, la colpa e la fragilità della vita.
L’esposizione romana non si limita a presentare una raccolta di opere d’arte, ma propone un viaggio introspettivo che invita il visitatore a confrontarsi con le domande ultime: quale è il senso del dolore? Come si riconosce la presenza di una «alterità» che possa trascendere la desolazione dell’anima? E, soprattutto, è possibile trasformare la sofferenza in una via per una rinascita spirituale? Queste domande, pur antiche, risuonano con particolare forza in un’epoca in cui il sacro appare sempre più evanescente, ma non meno necessario.
Coniugando arte, memoria ed emozione, la mostra diventa un ponte tra il tormento interiore dell’artista e l’esperienza universale della condizione umana. Munch, con il suo linguaggio visivo unico, ci offre una lezione di vita: il dolore, lungi dall’essere un mero fato crudele, può trasformarsi in una porta d’accesso a una dimensione superiore. È proprio in questa tensione, in questo dialogo tra luce e ombra, che l’arte di Munch rivela il suo potere trasformativo, capace di illuminare, anche solo per un attimo, il cammino verso la redenzione.
Il contributo di Edvard Munch alla storia dell’arte non si riduce a una mera espressione estetica, ma si configura come una profonda meditazione sul senso dell’esistenza, una continua ricerca di significato che abbraccia il dolore, l’amore, la perdita e la rinascita. La mostra a Palazzo Bonaparte di Roma rappresenta un’occasione imperdibile per riscoprire questo straordinario percorso artistico e per lasciarsi coinvolgere dalla forza delle immagini che, con il loro grido interiore, continuano a parlare direttamente all’anima del visitatore.
Luca Vona, pastore evangelico, è laureato in Discipline artistiche, musicali e dello spettacolo (Università di Torino); ha conseguito un Dottorato in Sacra Liturgia a Sant’Anselmo (Roma).