Diario di guerra /3

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Nelle ore di domenica 5 novembre in cui il ministro Amichai Eliyahu ha evocato la possibilità di usare la bomba atomica a Gaza – venendo solo sospeso ma non rimosso da Benjamin Netanyahu – mi è risultato difficile occuparmi di altro, nel mio diario. Poi sono venute le minacce iraniane: anche all’Italia, per la sua presenza nel contingente Onu in Libano, oltre che per i sottomarini nucleari statunitensi nel Mediterraneo.

Le parole che volano – quasi le singole lettere – segnano, nel profondo, l’umore di queste nostre giornate. Cerco perciò, nella mia memoria, un “capolettera” maiuscolo e, inevitabilmente, “sinistro” per questo capitolo della storia che vuole, sempre più, il mondo “in bianco o in nero”.

Lo trovo nel ricordo dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò, e della sua lettera pasquale, nel 2020, al presidente Donald Trump.

Quella lettera, secondo me non ancora opportunamente studiata, cominciava così: «Signor Presidente, stiamo assistendo in questi mesi al formarsi di due schieramenti che definirei biblici: i figli della luce e i figli delle tenebre […]. Nella società, Signor Presidente, convivono queste due realtà contrapposte, eterne nemiche come eternamente nemici sono Dio e Satana […]. È necessario che i buoni, i figli della luce, si riuniscano e levino la voce. Quale modo più efficace di farlo, pregando il Signore di proteggere Lei, Signor Presidente, gli Stati Uniti e l’umanità intera da questo immane attacco del Nemico? Dinanzi alla forza della preghiera cadranno gli inganni dei figli delle tenebre, saranno svelate le loro trame, si mostrerà il loro tradimento, finirà nel nulla quel potere che spaventa, fintanto che non lo si porti alla luce e si dimostri per quello che è: un inganno infernale».

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Tutte le guerre favoriscono questi toni. Indubbiamente una guerra in Terra Santa, tra appartenenti a fedi monoteiste diverse ha un valore aggiunto! La visione apocalittica giunge all’apice. I riferimenti, infatti, al Bene da una parte e al Male dall’altra, ormai, abbondano, non solo da un mese a questa parte, bensì da anni. Ora il culmine. Il terreno è stato ben preparato, da tutte le parti. Anche in ambienti cattolici, come la lettera di Viganò dimostra.

Gli anni spesi da Sant’Agostino a contrastare il pensiero del manicheismo – che così da vicino aveva conosciuto – sembrano ora non solo lontani, ma dimenticati e da dimenticare. Così come, da molti, sembra dimenticata persino la parabola del grano e del loglio, il cui senso mi appare molto chiaro: il male è dentro di noi, unito, mischiato con tanto altro, forse anche con un po’ di bene.

L’ex presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, in queste ore ha detto: «nessuno è innocente». Pensava anche a sé stesso. Mi consento di riprendere Obama – e queste sue nobili parole – perché non gli ho mai lesinato critiche per la sua politica mediorientale e per la sua politica di ritiro dal mondo: quel mondo che il suo Paese ha senz’altro contribuito a mettere a soqquadro; quasi pensasse, “io me ne vado, perché non posso pagare i danni che abbiamo fatto”.

Oggi ha il coraggio di ripetere: «Nessuno è innocente nella guerra in Medio Oriente», neppure “io”, neppure “noi”, Stati Uniti d’America. Ha aggiunto, ed è rilevante: «Siamo tutti complici. Anch’io ho provato a risolvere la situazione mediorientale e ne porto ancora le cicatrici». Obama cerca, oggi, una formula per questa guerra: «Da una parte gli attacchi di Hamas sono orribili e ingiustificabili, dall’altra l’occupazione di Israele è stata opprimente. Da una parte muoiono civili a Gaza, che non c’entrano nulla con Hamas, dall’altra c’è lo sterminio degli ebrei nel corso dei secoli».

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Nel mentre, il segretario di Stato americano Blinken chiede ad Israele – e sin qui non ha ottenuto nulla – pause umanitarie per soccorrere i civili. Ma respinge la richiesta araba di immediato cessate il fuoco, perché così Hamas potrebbe riorganizzarsi.

La diplomazia, specie americana, dunque, balbetta? Sembra dire: “pausa sì, cessate il fuoco no”, “sì alla trattativa per il rilascio degli ostaggi e al rispetto dei civili, ma diritto a difendersi da parte di Israele”. E allora? Ad ascoltare queste cose, non proviamo alcuna sensazione di sicurezza. Ma è davvero un balbettare quello di Obama e di Blinken?

Ai tempi di quelli che furono chiamati qui da noi gli opposti estremismi, estrema destra ed estrema sinistra si esprimevano con slogan tanto analoghi quanto opposti: il linguaggio dell’odio. A destra spiccava lo slogan: «Italia come il Cile, la lotta di classe finisce col fucile!», a sinistra si usava invece lo slogan «Il maresciallo Tito ce l’ha insegnato: usare le foibe non è reato!».

In mezzo c’era la “politica”, accusata da molti di parlare, appunto, il politichese. Le formule erano espresse in un linguaggio che sembrava lontano mille miglia dalla gente: famosa è divenuta la formula morotea delle convergenze parallele. Uno dei principali intellettuali italiani prese atto di questa frattura, con la gente, da sinistra – era Italo Calvino che ebbe a scrivere: «Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua».

Sempre da sinistra, Umberto Eco ebbe modo di far notare, nell’uso abbondante delle figure retoriche, la degenerazione della retorica e la sopraffazione verbale.

Ora un Blinken che – per conto di Biden – sta facendo la spola nel Medio Oriente in fiamme e che dice “no” a transfer forzati di popolazione da Gaza, come dice “no” al ritorno dei miliziani di Hamas, rischia di usare lo stesso tono politichese pressoché incomprensibile ai più. Certo: sta balbettando, perché la situazione è incredibilmente e orribilmente complicata, non da ora, ma da secoli, come ha ricordato giustamente Obama.

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All’Angelus domenicale, di nuovo, Francesco ha parlato di «cessate il fuoco», di «liberazione degli ostaggi», «soccorso ai civili», e «Basta!». Si dirà: “sì, ma lui è il papa, fa presto a dire così”; “tanto nessuno lo ascolta”. Sì, lui è il papa e ha in mano il vangelo: cos’altro potrebbe dire?

Ma intanto, nel pomeriggio di questa stessa domenica, ha parlato col presidente iraniano Raisi: cosa di non poco conto in questi tempi d’uso del linguaggio apocalittico-religioso. Non penso che Raisi abbia realmente provato gratitudine per la richiesta di cessate il fuoco avanzata dal papa, perché non credo che abbia un tenero cuore, come non penso che Francesco abbia tenuto solo per sé quanto gli avrà detto.

Da laico mi fa comunque piacere sentire parlare il papa così, magari per dire sempre le stesse cose, ma insistentemente. È l’unica voce che mi possa infondere un po’ di sicurezza: l’unico argine al pensiero apocalittico. È vero: la sua autorità è solo morale, ed è fondata solo su quel carattere che, molto indegnamente, ritengo evangelico: il coraggio di osare la fratellanza, sempre.

Il linguaggio apocalittico è forte, ci convince facilmente. Chi vi si oppone si sente smarrito, avverte nella diplomazia la debolezza del politichese. Francesco offre l’argine per restare lontani da quel genere di pensiero e linguaggio apocalittico senza salvezza alcuna. Solo per tale via anche il linguaggio della politica può ritrovare forza comunicativa presso le genti: deve trovarla, e noi dobbiamo capire. Abbiamo il diritto.

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