Diario di guerra /30. Uno stato palestinese

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diario di guerra

Nella mia precedente pagina di diario ho preso le distanze dalle posizioni della signora Nancy Pelosi per la quale – chi critica Biden su Gaza – sarebbe ispirato da Putin.

Ora, apprendo che il Segretario di Stato americano Blinken che, al contrario di Pelosi, ha dialogato pure con i dissenzienti, ha chiesto ai suoi uffici – stando a quanto riferito da fonti definite autorevoli da Axios – di studiare con decisione il caso di un possibile riconoscimento dello Stato di Palestina.  Da lì si è rapidamente, forse enfaticamente, scritto di una «nuova dottrina Biden», che definirebbe lo Stato di Palestina come «necessario», benché «smilitarizzato». Quel che evidenzio qui è che non si può certo dire che Biden sia stato condizionato da Putin.

Non ritengo possibile, più di tanto, entrare nel merito: quanto ho trovato scritto è promettente, benché assai complicato, ancora vago e privo di elementi determinanti rispetto al vero nodo: quello dei confini. Scrivo, comunque, che stimo Blinken, mentre molto meno il radicalismo esibito da Pelosi, peraltro speculare all’opposto radicalismo, quello di molti nella destra americana. Questa guerra, come ho sostenuto, ci parla purtroppo di una generalizzata tendenza ai radicalismi, riedizione di quelli vecchi del Novecento. Ciò che non ci fa fare passi in avanti, ma indietro.

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Per me è difficile intendere coloro che chiamo gli “occidentalisti”. Non che mi sia facile avere a che fare con gli islamisti. Vocabolo, quest’ultimo che, così preso, è troppo spesso inteso come integralisti in genere. Il fatto è che, naturalmente, gli occidentalisti pesano di più.

Nella convinzione di questi, l’Occidente ha dominato il mondo soltanto per meriti, chiari ed evidenti, ma io aggiungerei che a volte ha dimostrato il desiderio di  trasformare il male in bene. Alla domanda quale sia stato il primo genocidio del Novecento, facilmente – noi occidentali – rispondiamo: quello armeno! I turchi, purtroppo, non sanno riconoscerlo ancora, dopo oltre un secolo, come tale.

Ma dovremmo, insieme, ben ricordare che nel 1904 furono i tedeschi ad inaugurare il «secolo breve» con il genocidio degli Herero e dei Nama, in Namibia.  Gli occidentalisti possono ben dire che i coloni tedeschi erano interessati solo alle terre e alle loro ricchezze e che, quindi, sono stati gli Herero e i Nama, con le loro proteste, a rendere tutto più difficile e “colorato di rosso”. Se ne è parlato nei giorni scorsi, in occasione del dibattito nel Tribunale Internazionale dell’Aja.

Non so se qualcuno abbia inteso ridimensionare il genocidio. Forse no. Perché poco importa agli occidentalisti. Semmai si è cercato di trasferire la responsabilità del primo genocidio novecentesco ai musulmani, sebbene sia noto che il Sultano non contava più un bel nulla: la decisione fu del governo dei generali, nazionalisti e laici.

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Questo è molto rilevante, perché fu il nazionalismo a guidare Talat Pasha, ministro della guerra, e i suoi telegrammi. Certo, nel farsi della carneficina furono i musulmani a uccidere i cristiani: terribilmente vero! La religione sarà anche stata usata “contro”, ma fu il nazionalismo a guidare le menti degli ideatori: temevano – sostengono in molti – che gli armeni avrebbero favorito l’espansionismo in Anatolia della vicina Russia.

Il nazionalismo va sempre preso con i guanti, ma in quelle terre era arrivato da poco, con la spedizione di Napoleone. La parola “nazione” fu inventata propria allora. La differenza tra la fede e questo nuovo concetto di “nazione”, non era affatto chiara!

Non sono quindi dell’idea che semplificare ciò che è complesso del nostro passato e di quello altrui possa giovare al presente: anzi, ritengo che possa solo avvelenare i pozzi del dialogo, indispensabile. Oggi vedo questo rischio ben vivo tra il nostro mondo e il cosiddetto Global South. E la questione di Gaza rischia di divenire quella attraverso la quale regolare altri conti storici irrisolti: non solo e non tanto quelli tra israeliani e palestinesi, bensì tra il Sud e il Nord.

Putin lo sa, di sicuro: per questo è entrato – ma molti suoi estimatori e islamofobi locali non lo dicono mai – come osservatore permanente dell’Organizzazione della Conferenza Islamica. L’Islam con le sue frustrazioni, che riguardano il rapporto tra arabi ed europei – piuttosto del rapporto tra cristianesimo e islam – è parte essenziale del Global South e dei suoi risentimenti. Putin, con la sua strategia, intende rivitalizzarsi col risentimento antioccidentale di tale islam.

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Ben consapevole dei tremendi rischi che sta correndo un mondo che ritorna al Novecento – fratturato in mille guerre – è Francesco. Il Global South – lui – lo conosce bene.  In una sua intervista, quale arcivescovo di Buenos Aires, ai tempi del primo default argentino, a inizio millennio, avvertiva che non c’è solo il terrorismo degli esplosivi e dei mitra, ma che c’è anche il terrorismo economico. Ecco: la riforma economica Usa che ha consentito ai fondi finanziari avvoltoio (hedge found o vulture found), specultaivamente, di impossessarsi del debito del Terzo Mondo, non dirà tutto del potere sul debito, ma quel che dice è molto rilevante.

L’occidentalista, però, di ciò parla poco, come di Bergoglio e in particolare del suo Documento sulla fratellanza umana. È convinto che sia stato scritto con un inchiostro simpatico, destinato ad estinguersi.

Io, invece, sostengo che lo dovremmo rileggere tutto per capire anche quello che oggi succede a Gaza: i significati diretti e quelli che acquisirà col tempo, specie se non si dovesse imboccare quella via del compromesso ragionevole che è l’unica che può dare risultati: l’unica che può ridurre l’integralismo del Global South. Anche il Sud non ha da denunciare solo le colpe del Nord, ma pure tante carenze ed errori propri: ad esempio, la corruzione. Trovare un interlocutore occidentale con cui dialogare sarebbe importante.

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Sono cose che in Europa sono – o dovrebbero essere – risapute. Mi ha fatto, perciò, piacere notare come il Ministro degli Esteri britannico, Cameron, abbia per primo dimostrato lungimiranza, ipotizzando proprio la strada – nel suo esprimersi pubblicamente – imboccata dal collega di Washington.

Siamo solo agli esordi di un cammino difficilissimo, nessuno sa dire dove si arriverà. Resta il fatto che alle semplificazioni propagandistiche alla “Pelosi”, preferisco di gran lunga la complessità e la cura dei “Blinken”. Poi si valuterà l’esito.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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