La parrocchia come ospedale da campo

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Ripensare la parrocchia

Fabrizio Carletti è docente e responsabile della ricerca della Scuola internazionale di management pastorale presso la Pontificia Università Lateranense. Ha redatto questo breve articolo, che non intende essere un’analisi esaustiva, come contributo alla riflessione avviata su SettimanaNews (L’antica sapienza della parrocchia, Perché la parrocchia non muoia / 1, Perché la parrocchia non muoia / 2, La parrocchia è viva, ma…, Se la parrocchia non diventa comunità…, Perché la Tradizione non muoia…).

Ripensare la parrocchia oggi ci chiede di porci alcune domande di fondo: quali sono gli elementi essenziali che definiscono la parrocchia come tale? Quali i fattori costitutivi essenziali per ripensare oggi l’evangelizzazione sul territorio attraverso una rinnovata forma storica di parrocchia?

Nel passato, il rischio è stato – come scriveva sul tema mons. Brambilla – che la «pastorale del postconcilio è andata innestando sul corpo già appesantito di gesti precedenti, nuovi itinerari di fede e nuove proposte, ma senza potare, armonizzare, scegliere». Si sono aggiunte cose nuove alle cose antiche, producendo una Chiesa dalle mille attività e iniziative.

Non programma ma paradigma

Il cambio di passo richiesto da Papa Francesco non è di tipo programmatico ma paradigmatico. Non si tratta cioè di aumentare, in chiave missionaria, le iniziative in capo alla parrocchia per arrivare a tutti. Non fare cose nuove ma fare nuove le cose, magari anche riducendone o ripensandone alcune, aumentandone la valenza testimoniale, come strategia primaria dell’annuncio oggi.

Cambio di paradigma nella prassi ecclesiale equivale ad un ripensamento a più livelli: nell’oggetto, nel soggetto, nella forma e nello stile.

Evangelii gaudium chiarisce il paradigma missionario: un contenuto che torni all’essenziale, attraverso discepoli missionari, in forma decentrata, di prossimità e con stile testimoniale e dialogico.

Il paradigma ci viene anche offerto da un’immagine, quella dell’ospedale da campo (intervista a La Civiltà Cattolica, 19 settembre 2013). Non si tratta, infatti, di una semplice metafora ma di un preciso modello organizzativo: inclusivo, aperto a tutti indiscriminatamente; luogo di prossimità, vicino a dove si svolge la “battaglia”; che mira all’essenziale, intervenendo sull’urgenza; decentrato, dotato cioè di spazi di autonomia anche se diretto da un centro di coordinamento; flessibile e leggero, in grado di adattarsi in fretta ai cambiamenti, non appesantito dalla struttura.

Decentrare i ruoli

Ripensare la parrocchia (e di conseguenza il ruolo del presbitero) da questa prospettiva, ricollegandoci alle domande iniziali, ci porta a rivedere la sua presenza sul territorio che ne costituisce comunque uno degli elementi caratterizzanti.

La parrocchia è luogo in cui storicamente si incarna e incultura l’annuncio evangelico verso tutti indistintamente e non verso gruppi specifici o élite ristrette; luogo dove si celebrano i sacramenti della salvezza, affinché “accadano” in uno spazio e tempo determinati; casa e scuola di comunione di comunità. Non più quindi una presenza intesa come forma di controllo e di accentramento su di sé di tutte le azioni pastorali, essendo venuta meno anche la sovrapposizione tra Chiesa e società civile, ma come soggetto di una rinnovata azione di annuncio e di sostegno alle iniziative di discepoli missionari, in chiave decentrata.

Pensiamo a tutti quei laici, adeguatamente formati, che possano svolgere azioni di evangelizzazione a vari livelli attraverso i loro diversi carismi: annuncio della Parola e preghiera in gruppi più ristretti, ascolto dei bisogni umani e sociali e azioni caritatevoli, riflessione e impegno socio-politico; affinché possano riscoprire, come discepoli missionari non osteggiati o visti in modo sospetto ma supportati, il loro ruolo nella società che va ben oltre i recinti della parrocchia. Oggi il loro impegno è quasi esclusivamente relegato ai servizi parrocchiali e troppi sono i servizi in capo a questa istituzione e gestiti in modo centrale da essa.

Riconfigurare “la governance”

Va trovato ovviamente un equilibrio tra differenziazione, autonomia e rispetto dei criteri minimi di ecclesialità. È necessario quindi un soggetto che operi questo discernimento ecclesiale. Ad oggi, questo ruolo è stato assunto implicitamente dalla parrocchia, come presidio territoriale. Potremmo chiederci se in futuro esso possa essere svolto dagli uffici diocesani relativamente ai diversi ambiti. Infatti, un ripensamento della parrocchia non può non determinare anche una riconfigurazione della governance a livello diocesano.

Anche agli uffici diocesani sarà richiesta una riforma in chiave di decentramento operativo, di supporto, formazione, giudizio sull’operato dei discepoli missionari attivi nei veri territori e dei singoli pastori; un’attenzione più decentrata e meno volta all’organizzazione di eventi troppe volte autoreferenziali e sconnessi dai bisogni reali del territorio.

Il presente articolo ha voluto raccogliere e rilanciare l’interessante e appassionata riflessione sulla parrocchia di alcuni articoli pubblicati in queste settimane. Non vuole essere una analisi esaustiva, così in poche battute, ma un ulteriore stimolo e spunto di riflessione al dibattito.

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