Diario di guerra /16

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Sono ore di forte lavoro diplomatico – queste – mentre scrivo la mia pagina di diario della guerra: per gli ostaggi, per il cessate il fuoco. Se ne riparlerà presto all’Onu. Il nuovo voto potrebbe superare l’empasse, a partire dal «no» americano.

Ma intanto succede altro e al mio diario affido una riflessione personale, sul punto in cui è giunta la guerra. È capitato anche a me di pensare che le guerre nel mondo possano funzionare come febbri altissime: un male, inevitabile, per guarire, per risolvere un’emergenza, per ritrovarsi poi, finalmente, fuori, all’aria. A volte, mi dico, che è accaduto proprio così: del Medio Oriente ricordo la guerra per la liberazione del Kuwait dall’invasione irachena: per i più avviò quel processo di pace arabo-israeliano – il negoziato di Madrid – dal quale emerse il percorso di dialogo che portò all’accordo tra israeliani e palestinesi.

Pure questa guerra, quindi, potrebbe portare a qualcosa di simile?  Forse. Eppure, nella mia testa, scattano subito le obiezioni. L’azione perversa di Hamas non è finalizzata ad alcun miglioramento. La risposta di Israele, al momento, sembra cieca. Perché accada qualcosa di buono serve, come ho già scritto, la capacità di entrambe le parti – partendo dalla realtà di reciproco rifiuto – di saper rinunciare al “tutto” per ottenere però una parte nella concordia: tremendamente difficile!

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A partire dai leader. Abu Mazen non ha avuto la prontezza e il coraggio di condannare immediatamente il pogrom del 7 ottobre; poi tutto è divenuto, per lui, più difficile. E, da parte sua, Netanyahu ha messo subito le mani avanti, dicendo che della nascita di uno Stato palestinese non se ne deve parlare.

Dopo la tragedia dei tre ostaggi israeliani uccisi dal fuoco amico di un soldato d’Israele – mentre stavano vagando impauriti per Gaza con una bandiera bianca in cerca di salvezza – Netanyahu si è detto orgoglioso di aver evitato la creazione di uno Stato palestinese, mutando il percorso del processo di pace già in corso, altrimenti Israele si sarebbe trovato in una situazione analoga, oltre che a Gaza, a Gerusalemme e a ridosso di Tel Aviv. Il suo è un convincimento profondo: questi conflitti sono insolubili e immodificabili sono i soggetti con i loro obiettivi; nulla può mutare.

Ma proprio il suo storico scontro con Yitzhack Rabin dimostra che si può sempre cambiare, che i soggetti possono mutare e mutano, che non sono tutti uguali gli interlocutori. Nell’Olp di allora, dopo un lungo confronto, era prevalsa una linea diversa da quella del rifiuto d’Israele, una scelta diversa incarnata dalla prima intifada e dall’idea dei due popoli per due stati, davanti alla quale Rabin seppe inventare un nuovo atteggiamento, di reciprocità, raccogliendo, con grande coraggio, la sfida della pace possibile.

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Le scelte di Netanyahu, ora, riguardano tutto l’Israele e il suo futuro: si tratta di credere in un futuro diverso, perché sia possibile la pace col mondo arabo, legittimata dall’accordo con i palestinesi e sui palestinesi, risolvendo, per sempre, quel rifiuto di Israele che gli israeliani ancora percepiscono con rabbia, oltre che con dolore. Un confine certo – definito e accettato – potrebbe produrre non un solo vantaggio territoriale, bensì la soluzione di fondo del problema che assilla tanti israeliani: perché si sentano capiti e non rifiutati, nella regione e nel mondo.

Anche accadesse quanto scrivo, ora più per effetto del mio desiderio che della realtà che ho sotto gli occhi, certamente non sarebbero risolti tutti i problemi. Rimarrebbe all’orizzonte l’Iran: una teocrazia indisponibile, per sua certezza, a qualsiasi compromesso. Instabilità e precarietà geopolitica permarrebbero nel quadro. Ma un passo avanti verso la fuoriuscita dal pantano sarebbe importantissimo. Oggi arabi e israeliani hanno la concreta possibilità di pensarsi – nel bacino del Mediterraneo – dentro un progetto planetario diverso, a partire dai palestinesi: la cosiddetta via del cotone, una via in grado di collegare, attraverso il Mediterraneo, la vecchia Europa all’estremo Oriente, potrebbe fare di Gaza, insieme ad Haifa, un hub del grande disegno, con un ruolo chiave nella realtà economica e commerciale mondiale; non più il ricettacolo della disperazione!

Ma appena alzo gli occhi dalla mia pagina, tutto il mio disegno si dissolve. Netanyahu sembra solo capace di preconizzare il dissidio perenne di cui è teorizzatore sin dagli anni ‘90, quando si tappezzava Israele di manifesti raffiguranti Rabin con la kefiah – il tradizionale copricapo palestinese – sulla testa. Non si arriverà alla pace – a quel tipo di pace con i sauditi in ruolo chiave – senza la pace con i palestinesi. Dopo la tragedia che si sta consumando a Gaza ciò appare impossibile.

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In una bella intervista rilasciata all’Osservatore Romano, l’ex premier israeliano Ehud Barack ha detto che la strada dei due Stati, quale ipotesi di avvio della pace regionale, è l’unica che possa essere perseguita. Ha aggiunto che l’affidamento provvisorio della sicurezza di Gaza dovrebbe passare, però, per un contingente militare arabo.

Il problema del contingente militare è dunque da far accettare agli arabi che, certamente, non vogliono apparire gendarmi dell’occupante, cioè di Israele. Anche loro, sebbene su posizioni diverse, detestano Hamas, ma neppure possono essere presentati come uno strumento nelle mani di Israele.

Riprendo a disegnare – o a sognare – sulla mia carta. Occorre prefigurare un ordine regionale che integri Gaza, come ho scritto sopra, in modo da offrire alla popolazione la prospettiva concreta che questa desidera. Nell’immaginario di una parte del popolo, Hamas è un’idea, una bandiera: va quindi sconfitta con i fatti, con lo sviluppo, con la pace e col benessere, non con altre bandiere di segno opposto. Senza questo, Israele riuscirà forse a distruggere tutto, tranne il terrorismo di Hamas. Occorre una prospettiva per sradicare Hamas dai cuori e se ci fosse il contingente arabo, a Gaza sarebbe accolto come noi accogliemmo gli alleati: sarebbe la liberazione dal giogo.

Il consenso di Hamas sta nella reazione emotiva, come conferma un sondaggio, realizzato in questi giorni in Tunisia, che capovolge il trend registrato in precedenza, favorevole all’intesa e contrario alla violenza. È un buon esempio degli umori regionali. E gli umori popolari sono importanti, anche sotto le dittature!

Sono, dunque, immodificabili questi interlocutori? Lo stesso sondaggio dimostra che nulla è immodificabile.  Prima del 7 ottobre la tendenza regionale era favorevole all’intesa. Ora le piazze arabe sono animate dalla effervescenza rabbiosa. D’altra parte, le piazze israeliane sono traumatizzate dal pogrom di Hamas. Così, nessuno sa guardare in faccia l’orrore causato all’altro.

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Le drammatiche vicende degli ostaggi uccisi per errore dall’esercito e del cecchino che ha ucciso due donne nella parrocchia cattolica di Gaza, dimostrano che le cose stanno solo peggiorando, senza che alcun problema sia risolto, anzi! In Cisgiordania il numero di palestinesi uccisi dall’esercito o dai coloni, in due mesi di guerra, giunge a 301: è un’altra guerra nella guerra feroce, meno citata, ma che c’è, eccome!

Nel Messaggio di Natale della Commissione Giustizia e pace dell’Assemblea degli ordinari cattolici di Terra Santa si legge: «a Gaza, negli ultimi due mesi sono stati uccisi più bambini palestinesi che nei due anni precedenti di guerra in tutti i conflitti mondiali»: perciò non potranno esserci, in questo Natale, decorazioni e addobbi a Betlemme. Saprà questa scelta a determinare un sussulto per il Medio Oriente, nel mondo?

C’è un gran bisogno di un orizzonte di speranza. Ma il circuito virtuoso può essere riavviato soprattutto dalla volontà dei leader e della Comunità Internazionale. La posizione assunta dalle Chiese è, per me, una istanza forte, che non deve essere lasciata cadere nel vuoto. A me appare una svolta decisiva per ciò che chiamiamo ancora il nostro Occidente, nel quale Betlemme è un posto che ha ancora qualcosa da dire.

  • Tutte le puntate precedenti del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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