Ucraina: negoziare la pace

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Intervista al professor Mario Giro, membro della Comunità di Sant’Egidio, già viceministro degli esteri dal 2013 e al 2018, collaboratore del quotidiano Domani e del settimanale Scenari, autore del recente volume Trame di guerra e intrecci di pace. Il presente tra pandemia e deglobalizzazione, edizioni SEB27, luglio 2022, dedicato alla guerra in Ucraina nel quadro internazionale globale.

  • Professore, la guerra in Ucraina poteva essere evitata con la trattativa?

La guerra poteva essere evitata. Ogni guerra può essere evitata. Churchill stesso – che non era di certo un pacifista – diceva che una guerra rimandata è spesso una guerra evitata. La politica ha sempre a disposizione gli strumenti per evitare i conflitti. Trattando. Bisogna volerlo, politicamente.

  • Cosa non ha funzionato?

Non ha funzionato, innanzitutto, il dialogo tra potenze e prima ancora la gestione del cambio di scenario politico internazionale, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. L’Occidente ha preteso che la Russia si allineasse in pochi anni al liberismo economico occidentale, mentre la Russia si è costruita un nazionalismo diffidente e revanscista.

Il tracollo dell’URSS è stato uno choc violentissimo, generando povertà e risentimenti. Alla fine, è stato un boomerang per l’Occidente. Politici russi senza scrupoli hanno costruito su tutto questo un atteggiamento aggressivo coltivato a lungo e che non è stato disinnescato.

La responsabilità di questa guerra è tutta della leadership russa ma a noi occidentali serve capire quali errori abbiamo compiuto, quale insensibilità abbiamo avuto e, soprattutto, cosa non abbiamo fatto che avrebbero potuto evitare la guerra. la guerra non è mai inevitabile.

La fine del comunismo è stata vissuta in Occidente come una vittoria. Avremmo dovuto capire che, dall’altra parte del muro, è stata vissuta in modo diverso, come un cambio radicale d’epoca, come se tutto ciò che era stato vissuto sino quel momento non valesse più nulla. È dilagata subito la povertà seguita da una rabbia sorda.

È nato il sistema degli oligarchi che – di per sé – è un sistema iper-liberista e iper-patrimonialista, a cui l’Occidente ha lasciato ampio spazio, con conseguenze economiche molto importanti, come vediamo, ad esempio, sulla questione del gas. Si è consumata una vera frattura culturale tra i due mondi. Quelle che abbiamo sotto gli occhi sono le conseguenze.

La guerra e il negoziato
  • Nel suo libro, lei sostiene che le dinamiche di guerra, una volta innescate, sono difficilmente arrestabili: i personaggi protagonisti ne diventano prigionieri. Può spiegare?

Le dinamiche che scattano sono le stesse in ogni conflitto. I conflitti armati sono sempre assolutamente da evitare, perché sono mossi da un ingranaggio interno. Chi dà inizio al conflitto si prende sempre una pesantissima responsabilità, come nel conflitto in Ucraina se l’è presa il presidente della Federazione russa Vladimir Putin. Ma la cosa drammatica è che nemmeno lui riesce più a controllarla, quali che fossero le sue intenzioni iniziali.

Mettere la parola fine a questa guerra diventa sempre più difficile. Subentra il grave problema di quale sia il livello di vittoria accettabile, ovvero di sconfitta accettabile: il problema di un leader – e di un governo – in tale frangente è salvare la faccia. Putin ha legato fatalmente l’esito della sua figura alla sorte di questa guerra. Questo è un meccanismo infernale. Pericolosissimo.

  • Secondo lei, anche Zelensky è, in qualche modo, prigioniero di tali dinamiche di guerra?  

Zelensky è il capo di uno Stato sovrano che ha subito un’aggressione armata, che certamente non voleva, né si aspettava. Non è il responsabile di questa guerra. La resistenza ucraina è stata eroica.

Detto questo, la narrazione della vittoria che oggi prevale – con le parole «ci riprenderemo tutto e solo dopo negozieremo» o la stessa legge del “non negoziato” – rientra nelle dinamiche della guerra permanente e contribuisce a perpetuarla, aumentando le probabilità di esiti ancora più tragici: persino nucleari. Occorre negoziare.

  • Quanto, secondo lei, tale atteggiamento del governo ucraino è indotto o rafforzato dall’Occidente e, in particolare, dagli Stati Uniti?

L’Occidente ha immediatamente risposto alla richiesta di armi di difesa da parte del governo ucraino, ma ora è chiamato a porsi urgentemente le domande di prospettiva. Come porre fine a questa guerra? Cosa ci sarà dopo la guerra? Queste sono le domande che la politica internazionale si deve necessariamente porre. Bisogna pensare a costruire un domani mentre ancora si sta combattendo.

Ci sono stati altri conflitti in cui si è riusciti a pensare alla pace successiva prima che la guerra finisse. In questo senso l’Occidente si deve porre la domanda-chiave: come ricostruire in Europa la convivenza con la Russia, in futuro?

Non possiamo certo ignorare questo grande paese, il più grande del mondo, ricco di risorse naturali e culturali, pieno di problemi dentro e sui propri confini. Non possiamo permetterci una guerra infinita con la Russia. Il tema dei confini di questo Paese è un tema enorme, non soltanto verso l’Ucraina. Non possiamo ignorarlo.

L’Occidente europeo non potrà permettersi una guerra permanente con la Russia, da ogni punto di vista: economico e della sicurezza. Gli Stati Uniti vedono la Russia in maniera inevitabilmente diversa dall’Europa. Basta guardare la carta geografica: tra i due grandi Paesi c’è di mezzo un Oceano.

Dopo la globalizzazione
  • Nel libro, lei ha scritto dei riflessi della guerra in Ucraina sulla globalizzazione, tanto da arrivare a parlare di de-globalizzazione. Può spiegare?  

La crisi della globalizzazione precede la guerra in Ucraina e nasce dal disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina. Da un certo punto in avanti, la Cina ha assunto un atteggiamento sempre più economicamente aggressivo. Pechino si sente troppo stretta nelle proprie frontiere, soprattutto marittime: vuole avere quell’acceso globale ai mari che solo gli Stati Uniti hanno.

Ciò ha determinato una riforma della politica estera americana con Obama e Trump: disimpegno in Africa e in Europa e concentrazione in Asia. Inoltre, Trump vi ha aggiunto il fatto che la globalizzazione non conveniva più agli USA e all’Occidente. Stavamo già vivendo una fase di deglobalizzazione.

Questo ovviamente c’entra anche con la Russia e con la sua scelta di guerra in Ucraina. Obama aveva definito la Russia una potenza di livello regionale, non più una grande potenza del quadro internazionale e questo non è piaciuto ai russi.

Ora la Russia con chi vuole negoziare? Con gli ucraini? Non tanto: la Russia vuole negoziare soprattutto con gli Stati Uniti, perché vuole essere considerata una potenza a tutto tondo, come all’epoca dell’Unione Sovietica. Un rango che gli USA di Joe Biden per ora non vogliono riconoscere.

Siamo in una situazione in cui la globalizzazione economica conosce un forte rallentamento, rappresentato dall’accorciamento delle filiere economiche. L’abbiamo visto nella fase più acuta della pandemia, quando si litigava per le mascherine in Europa. L’abbiamo visto nella successiva corsa ai vaccini e nella loro distribuzione. I fatti hanno messo in discussione quell’ideale di mondo globale in cui tutti, a parole, avevano detto di voler credere.

Con ciò sembra finito il sogno del multilateralismo. Io ritengo che vada conservato, rivisto e aggiornato. Il mondo è divenuto più multipolare: ci sono più poli in competizione e in conflitto tra loro, perciò, c’è bisogno di più dialogo, più trattiva, più luoghi di confronto dialettico, per quanto sia difficile.

  • Quali conseguenze sulle sorti della democrazia nel mondo?

Il discorso sulla democrazia è a doppio volto. Da una parte, la democrazia sembra esser messa in crisi, anche all’interno della stessa Europa – pensiamo all’Ungheria o alla Polonia -, perché è un sistema che appare confuso, disordinato, lento, inefficace per la presa di decisioni urgenti. Dall’altra parte, la guerra restituisce, secondo me, forza e fascino alla democrazia, perché i sistemi autoritari – apparentemente più veloci ed efficienti – stanno mostrando ora tutte le loro rigidità, la loro inefficienza e i loro errori e orrori.

È molto interessante osservare ciò che è successo al vertice di Samarcanda del mese scorso, tra Cina, India e Russia. Mi pare che Cina e India abbiano detto chiaramente alla Russia: «stai creando problemi anche a noi». Il discorso sulla democrazia resta aperto. La democrazia ha subìto molti colpi negli ultimi tempi, ma non è finita. Anzi sta mostrando la sua resilienza.

L’importanza dell’Africa
  • Lei tratta le conseguenze della guerra anche in Africa: perché l’Africa?

Perché l’aumento dei prezzi, dei trasporti, dell’energia, degli alimenti colpisce molto più violentemente l’Africa. Perché l’Africa è importante. Perché l’Africa è il futuro dell’Europa. Le mie non sono solo affermazioni di principio, di stampo etico, secondo le parole di Francesco. L’Africa è l’unico continente ove c’è ancora terra coltivabile: ci sono circa 200 milioni di ettari liberi che negli altri continenti non ci sono più.

Stiamo sovra-sfruttando la terra, con le conseguenze ambientali che conosciamo. In Brasile si stanno bruciando le foreste per arare e coltivare. Anche in Africa ci sono foreste in pericolo che vanno salvaguardate, ma c’è, appunto, anche molta terra libera. Per nutrire il pianeta c’è indubbiamente bisogno dell’Africa.

Aggiungo che l’Africa diventerà il continente più abitato – molto più dell’Asia – entro la fine di questo secolo. Sarà il posto più ricco di manodopera, il che vuol dire più rischi, per certi versi, ma vuol dire anche e soprattutto grandi opportunità. L’Africa è un continente strategico per tutto il pianeta nella nuova versione post-globalizzazione.

Dobbiamo prestarvi molta attenzione: come Italia, in primo luogo, perché l’abbiamo davanti alle nostre coste. Sarebbe bello affrontare il discorso sull’Africa, non come un problema, bensì in maniera positiva, così da non lasciarsi prendere soltanto dagli allarmismi, sia migratori che di stabilità e di sicurezza.

  • Nel mentre, la Cina e la Russia stanno allungando le loro mani, sia economiche che militari, proprio sull’Africa. È così?

Per certi versi, possiamo essere riconoscenti alla Cina di aver rimesso l’Africa al centro dell’interesse mondiale, poiché gli europei l’avevano abbandonata. Dal 2000 la Cina investe in Africa. Al suo seguito stanno tornando altri Paesi. Manca sostanzialmente l’Europa. Manca l’Italia.

Per rispondere alla domanda, dico che la Cina ha molto investito e molto regalato in Africa. Ora sta regalando molto meno e vuole il ritorno economico. D’altro canto, non esiste in Africa un mito della Cina migliore dell’Occidente. Gli africani sanno cogliere da sé le differenze e le similitudini.

La Russia, dal canto suo, sta cercando di entrare in Africa con quel che possiede, ossia con le risorse energetiche, col grano e con le armi. Le sue capacità economiche sono tuttavia limitate.

Non ci sono solo Cina e Russia in Africa: ci sono Giappone, India, Corea del Sud, Turchia, Arabia Saudita. Tante potenze medie stanno riscoprendo questo enorme Continente che non è un giacimento a cielo aperto, da sfruttare, ma una risorsa mondiale dalle enormi potenzialità umane ed economiche.

La fine della guerra e l’Europa
  • Veniamo alla parte più propositiva del suo libro. Lei scrive – e qui ci sta dicendo – che è sempre tempo di trattare. Si può trattare nella guerra in Ucraina, ora?

Sì, ci deve essere, per forza. L’Europa deve parlare con una voce sola. I russi e gli americani devono cominciare a discutere e a trattare una nuova struttura e architettura di sicurezza in Europa.

Una nuova Helsinki è assolutamente necessaria per il futuro dell’Europa e per il futuro del pianeta. Il ruolo dell’Europa – davvero con una sola voce – è fondamentale.

  • Mi pare che la volontà di trattare si possa manifestare solo con la disponibilità a cedere qualcosa, da ambo le parti o da più parti….

Ora come ora, la trattativa – tra i contendenti sul terreno – non la vuole nessuno, appunto perché questi sanno che, mettendosi attorno al tavolo della trattativa, dovrebbero cedere qualcosa.

È normale che sia così. Mentre dovrebbe essere normale sedersi al tavolo, con lo spirito della trattativa, per il bene delle genti e per la pace.

  • Papa Francesco è forse più criticato che plaudito nel mondo, proprio perché parla troppo di trattativa e di pace. Lei cosa ne pensa?

Anche Benedetto XV fu molto criticato quando disse che la Prima Guerra Mondiale era una «inutile strage», una guerra civile tra cattolici. I cardinali arcivescovi di Parigi e di Vienna benedivano le bandiere di guerra ed erano contrari a quella posizione del papa.

Tutto il secolo scorso – e anche questo – è stato caratterizzato da una teologia e da insegnamenti papali sempre più contrari alla guerra quale mezzo di risoluzione delle controversie internazionali: pensiamo alla Pacem in terris di Giovanni XXIII, ai discorsi di Giovanni Paolo II, sino ad arrivare appunto a Francesco e a quanto ha scritto della guerra – definita resa vergognosa dell’umanità – nell’enciclica Fratelli tutti e nella Laudato si’.

So che non tutti i cattolici – meno i protestanti e ancor meno gli ortodossi – condividono queste posizioni. Diceva bene don Sturzo: «Bisogna arrivare ad abolire la guerra così come è stata abolita la schiavitù». In questo senso, la Chiesa cattolica e i papi sono all’avanguardia nel discorso sulla pace, in cui io mi ritrovo totalmente.

Papa Francesco non è il primo papa ad essere criticato per il suo discorso sulla pace: prima di lui ce ne sono stati altri, criticati o quantomeno guardati con sospetto.

  • Una domanda delicata: la posizione italiana – con l’esito delle recenti elezioni – potrà cambiare riguardo alla guerra in Ucraina?

No, non credo.

  • Possiamo concludere con qualche nota di speranza di pace, proprio mentre i giorni sembrano farsi sempre più cupi?

Dobbiamo crederci. Dobbiamo credere alla pace possibile. Dobbiamo lavorare tutti – da cristiani cattolici e non – affinché nei nostri Paesi si chieda ai rispettivi governi di fare decisi passi verso il negoziato. Necessariamente dovrà venire quel giorno: facciamo in modo di affrettarlo.

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