
Photo REUTERS/Yosri Aljamal
Intervista ad Andrea Bertazzoni, esperto di cultura russa e collaboratore della rivista di geopolitica Domino diretta da Dario Fabbri. Bertazzoni svolge continuativamente attività di interpretariato a livello nazionale ed internazionale e collabora con diverse testate nazionali.
- Andrea, qual è il ruolo della Russia nel conflitto israelo-palestinese?
Come abbiamo scritto a più riprese su Domino la veste del «convitato di pietra» – quale presenza incombente e inquietante – è indossata da Mosca quando più le fa comodo in molte parti del mondo. Il suo è una sorta di gioco: una grande potenza, con la percezione che ha di sé stessa, fa l’occhiolino a una parte mentre fa affari con l’altra. È un classico. Recentemente, sul fronte israelo-palestinese, abbiamo letto una dichiarazione protocollare russa con la presa d’atto e il plauso all’annuncio della liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas. Nella circostanza, Mosca non ha mancato di sottolineare la lentezza della macchina diplomatica e burocratica di Israele.
- Quali sono dunque i rapporti della Russia con i belligeranti mediorientali?
È molto difficile stabilire quali siano i rapporti sul campo in termini di finanziamenti e di forniture militari delle varie parti. Il Cremlino, a partire dall’ottobre del 2023, ha ripetutamente accusato Kiev di fornire armamenti pesanti a favore di Tel Aviv. Verrebbe da dire: da che pulpito viene la predica!? Poiché Mosca, in questi anni, ha fornito armi a tutto il Medioriente, in grandi quantità e a tutti i belligeranti di turno.
Si tratta quindi di affermazioni puramente propagandistiche, col fine di soffiare sul fuoco di un conflitto – quello con l’Ucraina – che vede, peraltro, il caso, quasi unico, di un Presidente di appartenenza ebraica. Fino a poco tempo fa – conviene ricordarlo – l’Ucraina era l’unico Stato al mondo ad avere sia il Presidente che il Primo ministro ebrei.
Nelle pieghe della complessa situazione mediorientale non dobbiamo dimenticare come lo Stato di Israele sia nato anche con la fortissima pressione, non solo del Governo della Unione Sovietica, ma anche di autorevolissime voci dell’intellighenzia sovietica. È noto come la tradizione sionista-socialista abbia storicamente trovato terreno fertile in terra russa e ucraina. Dopodiché la Russia si è schierata, almeno a livello ufficiale, dalla parte dei Paesi arabi, anche in virtù della forte presenza di etnie arabe e di religione musulmana all’interno della Federazione.
La Russia, dato il suo spirito imperiale, non si cura della coerenza, ma fa i conti con gli equilibri interni ed esterni. Fornisce infatti armamenti ed aiuti finanziari non solo al regime di Hezbollah – nell’ambito del rapporto privilegiato che Mosca intrattiene con Teheran – ma anche alle milizie afferenti ad Hamas; ed è pure altamente probabile che molti armamenti in possesso di Israele provengano ugualmente dalla Federazione Russa.
C’è da aggiungere che Israele oggi è in possesso di un consistente armamento nucleare e di un esercito, seppur numericamente esiguo, comunque preparatissimo e dotato di armamenti con tecnologie di ultima generazione. Dietro le quinte è, dunque, facile ritenere che ci siano contatti russi con militari e istruttori israeliani: conferma ne è la loro presenza sul territorio del Nagorno-Karabakh – un lenzuolo di terra tra Azerbaigian e Armenia – ove la Russia sposa ufficialmente la causa di Erevan, in chiave antiturca. Da questo punto di vista, ci sono sicuramente degli scambi e sarebbe molto semplicistico pensare che Mosca stia sostenendo, quindi, solo una delle due parti del conflitto israelo-palestinese.
- La Russia ha un’antica presenza ebraica nei propri territori, dall’Impero zarista all’URSS. Qual è il sentimento popolare e la posizione governativa nei confronti degli ebrei russi?
Nell’immaginario italiano campeggia il pensiero di una Unione Sovietica che ha collaborato con gli americani per liberare l’Europa dal nazi-fascismo, quindi senza particolari venature antisemite. Mentre la Russia, come molti altri Paesi al mondo, sia durante l’impero zarista sia nella patria del comunismo, ha avuto – e ha tuttora – una sua storia di antisemitismo. Gli ebrei hanno ricoperto posizioni apicali e hanno incarnato gran parte del movimento rivoluzionario alla vigilia della guerra civile. Dopo la fine dell’era imperiale zarista, con la fine della dinastia Romanov, molti eminenti esponenti rivoluzionari erano ebrei: su tutti un personaggio di spicco come Trockij. Molti finirono persino a capo della gestione dei famigerati gulag sovietici.
I sentimenti antisemiti erano presenti ben prima di Stalin. Dall’inizio della rivoluzione fino alla caduta dell’URSS, ad esempio nelle facoltà di studi orientalistici, lo studio dell’ebraico era interdetto e, anche dopo la caduta di Stalin, rimase interdetta la professione medica a chi fosse di origine ebraica. Tutto questo in mezzo alle contraddizioni tipiche della Russia, quale la permanenza, sino ad oggi, di una comunità autonoma ebraica in cui non solo l’ivrit, ma anche l’yiddish sono considerate lingue ufficiali: non esiste, fuori dallo Stato d’Israele, una situazione analoga.
Aggiungiamo il dato che oggi in Israele vivono circa due milioni di persone, ossia il 20% circa della popolazione, di madre lingua russa. Senza dimenticare che in Russia ci sono circa venti milioni di persone appartenenti a varie etnie, con passaporto russo, che professano la religione islamica: in maggioranza sunniti, ma con una piccola minoranza sciita azera. Non è poi così semplice delineare il sentimento popolare odierno dei russi rispetto agli ebrei russi. Il governo esibisce oggi posizioni antiebraiche in funzione antiamericana, accentuate dalla dichiarazione congiunta Netanyahu-Trump in cui si esclude la soluzione dei due Stati e in cui si afferma che i palestinesi dovranno abbandonare le loro terre.
Su questi temi conosciamo la posizione di Mosca: grandi accuse e critiche all’operato di Israele e quindi difesa – ma solo a parole – della popolazione palestinese e, in generale, delle popolazioni arabe. Tuttavia, in Russia rimane una percentuale, seppur risicata, di cittadini ebrei molto vicini, per afflato culturale e visione del mondo, alla Terra d’Israele. Non dobbiamo sottovalutare inoltre l’altra vena razzista presente in Russia – eredità dell’era imperiale – per effetto della quale non si nutrono particolari sentimenti di amicizia pure nei confronti degli arabi. Negli anni Novanta del secolo scorso, quando si è aperta la nota parvenza di libertà di opinione, quei sentimenti antisemiti e razzisti in genere sono riaffiorati in modo inaspettato.
Consideriamo però un assunto di fondo: da una grande collettività come quella russa o quella americana, turca o iraniana – segnate tutte da presenze di etnie molto diverse in una postura imperiale – non possiamo aspettarci particolari «coerenze». Le grandi potenze operano grandi virate d’opinione, anche inaspettate, e in brevi lassi di tempo. Se domani si arrivasse a una soluzione, per quanto precaria, del conflitto russo-ucraino, è possibile che Mosca possa cambiare posizione anche riguardo alla questione mediorientale: ovviamente in maniera puramente funzionale e opportunistica.
Non illudiamoci che Mosca possa essere mossa da sentimenti «amorevoli» nei confronti della causa palestinese, cosa che, peraltro, vale anche per gli altri Paesi arabi. Il famoso concetto di unità e di solidarietà del mondo arabo, talora ancora rappresentato in Italia, non esiste nella realtà: si vedano le posizioni dell’Egitto, della Giordania e dello stesso Libano.
- Col ritorno di Trump, sta cambiando l’atteggiamento della Russia, anche in Medioriente?
Teniamo ben presente che il Presidente degli Stati Uniti non è né un dittatore né un imperatore. I poteri che detiene sono inferiori rispetto a quelli di molti altri Presidenti, in primis il Presidente francese. Però è chiaro a tutti che il Presidente statunitense è a capo della prima potenza mondiale e quindi, banalmente, anche una sua sola dichiarazione ha una eco di proporzioni infinitamente superiori a quella di qualunque altro capo di Stato. La sua affermazione secondo cui il popolo palestinese letteralmente «dovrà trovarsi altri Paesi in cui andare» ci dice che per le grandi potenze la questione morale è – ahinoi – un dato del tutto ininfluente, e ci ricorda che la questione rimane ancora aperta.
Poniamo che domani si concluda finalmente lo scambio tra gli ostaggi rimasti nelle mani di Hamas e vengano riconsegnati ai palestinesi le migliaia di prigionieri politici, come previsto dagli accordi: una volta che si calmeranno le acque e la polvere si depositerà su questi avvenimenti, avremo, da una parte, la milizia di Hezbollah che in poco tempo potrà essere ripristinata da Teheran, e la milizia di Hamas certamente non estinta; cosa ne sarà allora dei due milioni di palestinesi, o poco meno, che rimangono da quelle parti? È complicatissimo immaginare una soluzione che possa porre fine al conflitto, anche da un punto di vista semplicemente «cartografico».
I Presidenti delle superpotenze, benché eletti, costituiscono «sovrastrutture» a cui non è consentito di mutare posizione geopolitica e di potere. Anche negli Stati Uniti avesse vinto Kamala Harris, difficilmente avremmo assistito ad un posizionamento molto diverso sul piano internazionale da quello a cui stiamo assistendo.
Le parole di Trump non ci piacciono, ma le parole le porta via il vento. Harris avrebbe forse avuto un approccio più cauto, più diplomatico, meno spavaldo, ma la sostanza delle posizioni, a mio avviso, non sarebbe mutata.
- E l’Italia, rispetto a Russia e Stati Uniti?
Il nostro Paese può avere qualche spazio di manovra nella «tattica», ossia in questioni quotidiane, ma non in quelle strategiche e di lungo termine, in cui non ha voce in capitolo. Degno di nota è il fatto che la Farnesina, nella figura del nostro Ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha dichiarato che – qualora Netanyahu su cui pende lo stesso mandato di arresto internazionale di Putin – dovesse mai mettere piede in Italia, le nostre Forze dell’ordine non lo arresterebbero: questo non è un passaggio banale.
E questo mentre l’Italia – attraverso la maggior parte degli organi di stampa – si è indignata del mancato arresto di Putin, da parte della Malesia. Ciò significa semplicemente che l’Italia, su queste questioni così delicate, deve ascoltare Washington.
Le nostre istituzioni si muovono nello spazio loro concesso; oltre un certo limite non si può andare. L’Italia, perciò, non può permettersi di applicare ciò che prevede lo stesso Statuto di Roma, in barba a ciò che comunemente noi crediamo, ovvero che la firma dei trattati abbia sempre l’ultima parola, la più importante. Questo rimane un aspetto da tener sempre presente, non perché non sia giusto anche protestare – tutt’altro! – ma per un principio di realismo e di opportunità politica.
Lo spazio che ha il nostro Paese nel panorama internazionale è assai esiguo. L’Italia, inoltre, con una demografia senescente, con un’età media che tra poco toccherà i cinquant’anni e che, secondo le proiezioni, negli anni Settanta del Duemila avrà dodici milioni in meno di abitanti, è destinata a un ruolo sempre più marginale. Ma anche Paesi europei, come la Francia e la Germania, da questo punto di vista, possono poco, se non limitarsi a qualche dichiarazione. La posizione del governo tedesco sulla questione d’Israele è, infatti, nettissima, quanto poco incisiva.
La nostra stampa ora si meraviglia del fatto che non si prenda in considerazione la partecipazione dell’Italia nei negoziati tra Washington e Mosca. Ma sarebbe più stupefacente il contrario.